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Parliamo (in modo orribile) di sesso

(Questo articolo ha buttato ogni pudore nel cesso, mi è costato veramente tantissimo scriverlo. Siete avvisati).

Scherzo spesso sul sesso, ma non ne parlo quasi mai. Un po’ perchè, anche volendo, non ne potrei parlarne con nessuno. Un po’ perchè, in fondo, tutta l’ironia che ci faccio, e tutta la disinvoltura che ostento, servono in realtà a coprire un forte disagio, chiamiamolo pure trauma continuo, che ho avuto in infanzia.

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Padre?

Oggi, mentre passeggiavo in un negozio, ho visto un bel segnalibro intarsiato, e ho pensato “perché no, potrei regalarlo a mio padre, dato che gli sto regalando anche un libro…” In quel momento, all’istante, mi sono sentita davvero patetica.

Ho smesso di parlare a mio padre tre mesi fa, dopo uno dei più grandi litigi della mia famiglia. Mi ha detto tante cose che un padre non dovrebbe dire mai. Ricordo di avergli dato uno schiaffo, per evitare che lui ne desse uno a mia madre. In quel momento ho capito che le circostanze mi avevano costretto a comportamenti in cui non mi riconosco, non voglio riconoscermi – e benché sia ovvio, sono stata io, ne sono capace – è anche vero che lontano da mio padre sono una persona ben diversa, e la rabbia e il disprezzo e il dolore non mi consumano. Da certe persone è meglio stare lontane, e non concedere loro l’occasione di giudicarci, di influenzarci e no, nemmeno di chiederci affetto. Per sopravvivere, si diventa bestie.

Dopo l’adolescenza pensavo che avrei recuperato il rapporto con mio padre, se solo l’avessi accontentato, se solo l’avessi compreso, se solo avessi chiuso gli occhi sui suoi difetti… insomma, tutto io dovevo fare. Educativo. Così mi aveva insegnato mia madre, l’unico metodo che negli anni si era inventata per sopportarlo. Ed io ci ho creduto. Gli ho dato ragione per anni, su tutto quello che faceva, diceva e pensava, e sono stata ben attenta a non introdurre nessuna nuova opinione, sì certo, per sopportarlo anche io… ma tentavo anche di farmi volere bene, nell’unico modo che mi veniva in mente: renderlo docile, adularlo. E lui era contentissimo, perché non ha mai desiderato di più dagli altri. Applausi. Lui era il bambino egocentrico e insicuro, affamato di conferme, ma tirannico come un adulto, e io la sorella-mamma, obbligata a vezzeggiare il bebè e non chiedergli niente in cambio.

Quando è arrivato a dirmi cosa fare o non fare, sono scoppiata. Io non amavo lui, amavo un’ altro padre, con la sua faccia, che credevo esistesse, e lui non amava me, semplicemente mi credeva un’estensione della sua coscienza. E dov’è stata mia madre in tutto questo? Perché ha lasciato fare a me lo sforzo emotivo di un ripudio che avrebbe dovuto sobbarcarsi lei, lei che quest’uomo incompiuto se l’è scelto, e che ha cominciato a detestare per i medesimi motivi venti, trent’anni fa? Per ora preferisco tenermi dentro il desiderio di essere amata, e combattere tra il disprezzo e la pietà. Un giorno compatirò mio padre, quando sarà morto e non potrà più ferirmi – ma adesso non mi si può chiedere questo. Sulle mie sole spalle pesa la dichiarazione aperta del nostro fallimento come famiglia, che né mio padre né mia madre mi aiutano a portare, ad elaborare. Troppo impegnati a ignorare, a detestarsi per ogni piccolezza, a lasciar perdere.

Oggi ho pensato a lui, d’istinto. Un secondo regalo era superfluo, il souvenir gliel’avevo già comprato, tanto per non fargli pesare la aridità tra noi. Questo è l’unico riguardo che mi sento di avere per la sua “sensibilità” al momento. Certo, soffre. Ma niente e nessuno può renderlo felice. E’ un uomo chiuso al mondo e, mi sa, cieco a sé stesso, l’unico interlocutore con cui dovrebbe parlare. Se anche avessi continuato ad applaudire, lui avrebbe continuato a chiedermi applausi, perché dentro di sé avrebbe sempre avuto rabbia e paura. Il suo destino di infelicità non mi riguarda, non posso farci niente -solo adesso lo capisco. Posso solo fare qualcosa per me.

Eppure, oggi ho pensato a lui. Mi sono sentita di una debolezza pietosa, mentre portavo il segnalibro alla cassa. Sono proprio un’illusa. Quell’uomo non mi amerà mai.

Attaccati ai tuoi problemi, chiamali identità

Abbiate pazienza, ritorno su questo argomento e potrei tornarci molte volte in futuro. Vivo in un mondo supponente e pieno di paura.
La mia generazione potrebbe essere riassunta nella fatidica frase “sono fatto così!” Infanzia ed età adulta sono collassate l’una sull’altra, lasciandosi dietro una specie di adolescenza marcescente, che della vera adolescenza ha perso la lotta costante, contro Dio e gli uomini, e conserva solo la spocchia infantile di chi, senza aver vissuto ancora la vita, nel dubbio, la presume.
L’individualismo è diventato una prigione, in cui molti, senza accorgersene affatto, muoiono di fame e di sete. Conosco molte persone della mia età chiuse nel tempio sacro della propria mente, da cui sentenziano ed imperano sulla realtà (o così credono, ovviamente – la realtà è abbastanza saggia ed imperscrutabile da ignorare del tutto la loro presenza). Affermano che l’amore non esiste, confondono avere una personalità di spessore con avere una pessima personalità, hanno una comprensione minima del bene e del male. La si potrebbe chiamare “sociopatia non patologica”, “scarsa intelligenza emotiva” o in altri modi ancora – ma mi sembra che stia diventando pandemica.
Inoltre sono tanti quelli che, senza nuocere particolarmente agli altri,  chiusi nei loro mondi fantastici, nuocciono principalmente a sé stessi. Quelli che fanno la mossa del cavallo con i propri problemi, sperando che questo basti. O peggio, impongono agli altri di “rispettare” i propri problemi, non come un punto debole da trattare con delicatezza, ma come una identità per cui portare rispetto – e quindi costringono tutti ad adottare comportamenti poco sani per adattarsi ai loro.
Ho bisogno degli altri. So di non essere onnipotente. Ma come faccio a stringere relazioni in ambienti letteralmente colonizzati da gente di questo tipo?
Lotto continuamente per amare ed essere amata, anche se sono particolarmente incapace in entrambe le cose. Non ho bisogno di raccontarmi che “posso esser felice anche senza amare nessuno in vita mia”, che “l’amore non esiste” o che è “come un hobby, alcuni lo praticano tanto, altri di meno”. Ci vuole così tanto ad ammettere “ho bisogno degli altri, ma non sono tanto capace a tenerli con me e potrei rimanere incapace per tutta la ma vita?” E’ così tanta la paura di fallire che si rinuncia in partenza?
Non mi sento né un maschio né una femmina e non ho ancora capito il mio orientamento sessuale, ma sono stufa marcia di persone con evidenti problemi di autostima/di interazione sociale/con il propri corpo, che costringono tutti ad eliminare da ogni conversazione ogni più vago accenno al sesso, e si definiscono orgogliosamente asessuali quando probabilmente, prima di tutto, dovrebbero andare da uno psicologo – e poi semmai si vedrà.  Io so di avere molti problemi, ma so anche che ho amato in modi strani, e ho avuto tanto, e sono stata felice.
Il mondo può molto su di noi. Il mondo può tutto. La vita ci travolge e ci cambia. E non sappiamo quasi niente su noi stessi. L’amore non è santo, è necessario. Tengo a dormire questi semi dentro di me.