In Limine

Mi dispiaccio

Non odio me stesso. “Odio” è un termine senza fondo, pieno di trasporto e poco obiettivo come l’amore. Ecco, mi dispiaccio. I dislike myself. Provo una tiepida disapprovazione per quelle zone grigie della mia personalità che in altri momenti sono la mia fonte di orgoglio.

Sono fatto di dolore. Non perché l’anno scorso o l’altro ieri mi sia capitato qualcosa di brutto in cui ancora sgrufolo convinto che mi renda sublime. No. È la mia materia prima. Ho vissuto esperienze estreme che, rievocate alle due di notte per scherzo davanti a una birra, fanno arricciare la fronte ai miei amici. Ho provato più dolore che ogni altra emozione. E oggi è quello che sono. Posso rinnegare me stesso, oppure posso abbracciare la conoscenza e il coraggio, e quindi il potere, che questo mi dà. Esiste il dolore puro; e poi esiste la paura del dolore, a cui io sono abituato, a cui corro incontro come l’onda che dovevo cavalcare da bambino per non farmi sommergere.

Tuttavia, ogni tanto, mi dispiaccio.

Mi sento impuro. Considero il mio umorismo pesto e il mio cinismo farciti di tenerezza, e la mia impassibilità, anzi la mia sete di argomenti controversi, come se stessi guardando un cadavere mezzo decomposto che per qualche indecenza del caso ancora parla. Mi considerano sexy. Ma quando mai? Ancora oggi da qualche parte provo rancore per quello che mi è successo, ancora oggi giudico me stesso merce avariata e senza speranza. E desidero una innocenza che tuttavia sarebbe stata goduta da qualcun altro, ma non da me – perché l’innocenza funziona così, esiste solo per chi non ce l’ha. Non so perché, ogni tanto, ancora, guardo me stesso con questo crudele occhio estetizzante che vede solo merda laddove c’è invece terreno fertile.

Non so come fermarmi. Dentro di me c’è un bambino che non ha voce. Forse non credo nell’esistenza di quel bambino – forse credo che sia solo un aspetto seduttivo della mia mostruosità, l’aspetto che confonde il prossimo e lo induce a credere che la fragilità sia dolcezza per potersi attaccare agli altri come una sanguisuga e chiedere e chiedere senza fondo – perché i mostri sono soprattutto dolore senza direzione né argini.

Ho paura di star diventando come mio padre.

Ecco il fondo di tutto questo.

Prigionieri

“La fasciatura del seno, dopo due soli mesi, altera permanentemente il tono muscolare e la forma dei seni. A lungo andare può causare problemi alle costole e ai polmoni.” Ieri sera, dopo aver letto queste e tante simili parole, sono andata a dormire sentendomi sconfitta dal mondo. Leggi il seguito di questo post »

Piccole creature

Oggi ho visto un grosso ratto morto all’angolo della strada.
Quando mi sono avvicinata e l’ho guardato un po’, mi sono accorta che no, non era morto, stava ancora morendo, con gli occhi chiusi e il respiro affannoso, con le mosche che si posavano già sulla sua ferita aperta. Leggi il seguito di questo post »

Cucinare per gli altri

Odio i pasti regolari. Per la verità è una bugia. In un mondo ideale amerei cucinare e mangiare regolarmente. Mi piacerebbe essere una di quelle persone lì, che hanno dei ritmi, che hanno il dono delle regole. Nella realtà le ore dei pasti sono un gran motivo di noia e di ansia per me.

Spesso non mi accorgo di avere fame finchè la sensazione non diventa insopportabile. La cucina della struttura dove vivo è un luogo estremamente scomodo e affollato. Il rumore mi mette ansia. Dipendere dai ritmi altrui mi mette ansia. Anche quando cerco di pranzare e cenare a orari improponibili, per incrociare il minor numero possibile di persone, sento su di me gli sguardi dei pochi rimasti, che si chiedono “perchè sta sempre da sola?” come se ci fosse qualcosa di intrinsecamente sbagliato in me, e questo mi mette ansia. So che anche i direttori pensano la stessa cosa, e questa è la peggiore delle ansie. So di non essere benvoluta semplicemente perchè sono diversa.

Da qualche giorno è tornata una delle ragazze con cui ho fatto gruppo negli scorsi anni. Siamo rimaste noi due. Tutte le altre si sono trasferite o sono ritornate a casa. Questa ragazza non sa cucinare. Al massimo sa metter su l’acqua della pasta. Mi ha proposto se vogliamo condividere la spesa e i pasti – per me va bene, almeno ho delle scuse per andare in cucina “come tutti gli altri vogliono” (tutti, compreso il mio stomaco).

Quando mangio ho i miei estremi. Mi ricopro di schifezze, oppure organizzo pasti come si deve. Questa ragazza è campata per due anni con la cucina di un’altra mia amica – senza cattiveria, ma cucinava in modo pesante, era tutto salatissimo, e non c’era traccia di frutta o verdura. Tuttavia, poichè a casa sua cucinano ancora peggio, si è sempre adattata a tutti i tipi di piatto. Ieri sera l’ho vista sorpresa: per la prima volta stava mangiando un’insalata, e le stava piacendo!

Non so bene cosa sia scattato in quel momento, ma ho sentito di aver fatto qualcosa di buono. Io e lei abbiamo pochi mezzi per comunicare. Siamo completamente diverse, e tutte le nostre conversazioni contengono battute, cazzate, serie tv e nient’altro. Per la verità, non capisco perchè mi frequenti. Forse è abitudine, forse per lei sono divertente, forse uno vale l’altro. Ma ieri forse ho pensato di poterle dare un pezzettino di me stessa – anche solo attraverso la cucina – e sembra poco ma  non lo è, perchè siamo davvero ciò che mangiamo. Sono anche stata contenta di farla mangiare un po’ meglio del solito. Anzi, mi sorprende pensarlo, ma forse sono la migliore cuoca (in fatto di equilibrio dei nutritivi, di salute) che abbia avuto finora. E’ un po’ curioso pensarci, perchè io mi arrangio, più che cucinare, ma a casa mi hanno abituato molto bene, e a quello mi adeguo.

La ruota della sorte

Oggi è stata una giornata più sociale del solito. Ho passato 10 ore con persone che conosco solo da un paio di mesi, e ci sono stata bene. Leggi il seguito di questo post »

La grande città sotto la pelle

Ieri sono stata a Genova, ad incontrare una mia amica di media data. Sono tornata alla mia vecchia “casa” da quasi un mese, ed è stato come depurarmi di tutto. Luoghi, persone. Sono tornata bambina per circa 30 giorni. Così, non appena ho visitato un altro luogo, e sono stata a lungo con un’altra persona, le ho assorbite come una spugna, e continuano a pulsarmi dentro anche adesso.

Genova è una strana città, disordinata e un po’ decadente, ma in fondo amica dell’uomo, che è stata con me fin dall’infanzia. E’ stata la metropoli di tanti anni fa, quando non conoscevo Roma nè Londra nè Tokyo, perchè in verità non pensavo a niente, se non a quello che vedevo. I miei genitori mi portavano a vedere qualche mostra a Genova, ed i vecchi palazzi di inizio ‘900 mi sembravano giganteschi. Ancora adesso mi affascinano con quel cupo strato nero che li ricopre. Loro erano lì prima di me. Hanno visto molte cose ben prima che io esistessi. Rivedere Genova ieri è stato nostalgico. Ho pensato a mia madre. Alle gitarelle in via XX Settembre che ogni tanto faccio con lei, lei che mi ha conosciuto per tutti questi anni, e che in fondo è rimasta, e mi vuole bene più di quanto me ne abbiano voluto tutti gli altri. Mi è sembrato di tradirla, ad essere lì con un’ altra persona, indossando un’altra maschera, con un altro ruolo. Così, di colpo vivere Genova nel presente. Poi ho pensato che i tempi passano, che anche mia madre un giorno non ci sarà più, e se non mi impegno a stringere rapporti adesso, un giorno rimarrò completamente sola.

Conoscere la vita attuale della mia amica, che ha trovato casa, che ha un lavoro stabile, i suoi hobby, i suoi acquisti, mi ha riempito di gioia e di vitalità. Lei, che fino a qualche anno fa sguazzava nello studio matto e nell’incertezza, come tutti noi universitari, adesso ha una vita (quasi) completamente sua. Autonoma. Indipendente. Finalmente, veramente adulta. Ce l’ha fatta. E’ arrivata lì, al primo punto di arrivo. Una vita propria. Per fortuna, tra le tante sfighe che mi perseguitano, ho la fortuna di trarre autentico entusiasmo dai traguardie dalla soddisfazione altrui. E in secondo luogo (perchè non è la stessa cosa) mi riempie di speranza sapere che un giorno sarà possibile anche per me avere una casa, avere un lavoro di cui essere soddisfatti (perchè, a quanto pare, quel lavoro le piace davvero), una vita mia. Certo sperando, sperando con tutta me stessa di aver capito come intessere contatti sociali e trovare qualcuno (non importa se amore, amici o entrambi – poichè non faccio molta differenza, ed è questo spesso il problema) che sia capace di accogliere e ricambiare la mia sovrabbondanza di sentimenti.

Dall’altra parte, in tutta quella serenità e soddisfazione, mi è presa una specie di claustrofobia. Di “tutto qui?”. Ho sentito di non desiderare davvero davvero quella vita, quei traguardi, quella stabilità. Una specie di mostriciattolo pieno di vita si è agitato e ha battuto i pugni dentro al mio stomaco. Ho pensato a tutto il resto del mondo, a tutte le persone sulla faccia della terra, a tutti i panorami esistenti da qui al polo sud, a tutte le altre vite, a tutti gli odori diversi che può avere l’aria. E ho sentito chiaramente dentro di me che il mio desiderio non è quello di fermarsi, di stabilirsi, di realizzarsi. No. Io voglio conoscere tutto. Io voglio vivere tutto. Voglio andare dovunque, e da nessuna parte. E forse non sarò mai grande. Ho una voracità dentro che forse mi impedisce la serenità, ma in cambio mi regala un entusiasmo e una curiosità perpetua che sono la mia gioia, il mio rifugio. Il mio porto sicuro è l’orizzonte.

Speriamo solo che i soldi mi sostengano.

E’ una stranezza che due persone così diverse come io e lei abbiamo intessuto un’amicizia più o meno stabile, una stranezza di cui sono molto felice. In fondo mi ha sempre incuriosito chi è diverso da me.

Nella mia testa:

Parliamo (in modo orribile) di sesso

(Questo articolo ha buttato ogni pudore nel cesso, mi è costato veramente tantissimo scriverlo. Siete avvisati).

Scherzo spesso sul sesso, ma non ne parlo quasi mai. Un po’ perchè, anche volendo, non ne potrei parlarne con nessuno. Un po’ perchè, in fondo, tutta l’ironia che ci faccio, e tutta la disinvoltura che ostento, servono in realtà a coprire un forte disagio, chiamiamolo pure trauma continuo, che ho avuto in infanzia.

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Se fa male, è la verità

Ti ho detto due formule magiche. “Non ti ho mai stimata.” “Non mi sono mai fidata di te.” Da quando te le ho dette, mi trascino per i passi della mia vita come l’ultimo degli abietti. Leggi il seguito di questo post »

“Me stessa” mi allontana dagli altri

Amici? Certo che ce li ho, direbbe il resto del mondo. Non lo so, forse non ne ho nemmeno uno, dico io a voce bassa, per non farmi sentire. Altrimenti sarei una stronza, sarei troppo esigente, sarei piena di problemi inutili. Di questo tipo sono i commenti che ho ricevuto finora.

Con i miei cosiddetti amici non ho problemi, non litighiamo mai. Ed è questo il problema. Siamo persone che non si toccano, messe l’una accanto all’altro come i soprammobili su una credenza, passiamo i mesi assieme parlando di cazzate, e lo chiamiamo attaccamento, amicizia, affetto. Forse per tutti, in fondo, l’amicizia è questa – e sono io ad avere “problemi inutili” – ma ditemi, avete mai visto un problema davvero inutile – o magari aveva solo il nome sbagliato? A volte sono loro profondamente grata e li penso con affetto sincero, perchè sono gli unici amici che ho – sì, come se nessun altro potesse, volesse essere mio amico. Come se la loro compagnia fosse un atto di carità nei confronti di me, una persona così distante, ancora più distante di quanto loro possano esserlo l’un l’altro, una persona che mente in continuazione – loro lo sanno, ma per qualche motivo scelgono di rimanere.  Ed io sono loro così grata, perchè se incontrassi un giorno me stessa, mi sentirei semplicemente odiata da quell’individuo così bugiardo, con discrezione, ma odiata, e me ne andrei via. Suppongo che i miei amici traggano il piacere che possono dalla mia parlantina, e dal buon carattere che fingo di avere, e non vogliano chiedere di più.

Altre volte invece li odio, e li disprezzo. Dovete sapere che io ho il disprezzo facile, per gli altri così come per me stessa ed il mondo intero. Li trovo una mandria di individui ottusi ed amorali, senza prospettive, grezzi, sommersi dalla banalità – e l’odio che provo per loro spesso si confonde con l’odio per le cose del mondo. Vorrei non essere più invitata alle loro feste o alle loro serate, vorrei che non mi riempissero più la testa delle loro cazzate – a cui tanto non potrei oppormi, perchè non ascoltano confutazione alcuna. Ogni volta che decido di mangiare sano, di vedere film diversi da quelli di hollywood, di andare a letto presto, di fare attività fisica, tutte le passioni che ho da tempo e devo strozzare, o tutte le buone abitudini che sto cercando di apprendere, mi allontanano sempre di più da loro.

Tra l’odio e l’amore c’è una verità più o meno oggettiva: ho veramente poco in comune con queste persone, sia di cuore, sia di esperienze, sia di prospettive, viviamo su pianeti diversi. Ma l’alternativa qual’è? La solitudine. Non conosco nessuno che sia diverso da loro – e quel che è peggio, sto perdendo quasi del tutto la mia già scarsa capacità di intessere relazioni umane; non parliamo della capacità di goderne davvero – è praticamente estinta. Provo, ogni tanto, per qualche caso fortuito, a conoscere e frequentare altre persone, e tutto andrebbe a gonfie vele…se solo non sentissi, ad un certo punto, l’impulso irrefrenabile di fuggire via e non tornare. Sto recitando, lo so che sto recitando. E allora distruggo tutto, spezzo i legami, mi ritiro nella mia sincera, limpida solitudine. Forse vuol dire questo, non credere più nell’amore. Sentire che fuori dalla solitudine c’è solo altra solitudine.

Non sono abituata ad essere una persona vera agli occhi degli altri. Ho imparato con gli anni che le persone mi avvicinano solo perchè vogliono qualcosa. Che io le faccia sentire importanti. Oppure vogliono scopare, che è quasi la stessa cosa. Non so più dov’è finita la mia anima, e ho paura.