In Limine

Tag: personale

Piccole creature

Oggi ho visto un grosso ratto morto all’angolo della strada.
Quando mi sono avvicinata e l’ho guardato un po’, mi sono accorta che no, non era morto, stava ancora morendo, con gli occhi chiusi e il respiro affannoso, con le mosche che si posavano già sulla sua ferita aperta. Leggi il seguito di questo post »

La ruota della sorte

Oggi è stata una giornata più sociale del solito. Ho passato 10 ore con persone che conosco solo da un paio di mesi, e ci sono stata bene. Leggi il seguito di questo post »

La grande città sotto la pelle

Ieri sono stata a Genova, ad incontrare una mia amica di media data. Sono tornata alla mia vecchia “casa” da quasi un mese, ed è stato come depurarmi di tutto. Luoghi, persone. Sono tornata bambina per circa 30 giorni. Così, non appena ho visitato un altro luogo, e sono stata a lungo con un’altra persona, le ho assorbite come una spugna, e continuano a pulsarmi dentro anche adesso.

Genova è una strana città, disordinata e un po’ decadente, ma in fondo amica dell’uomo, che è stata con me fin dall’infanzia. E’ stata la metropoli di tanti anni fa, quando non conoscevo Roma nè Londra nè Tokyo, perchè in verità non pensavo a niente, se non a quello che vedevo. I miei genitori mi portavano a vedere qualche mostra a Genova, ed i vecchi palazzi di inizio ‘900 mi sembravano giganteschi. Ancora adesso mi affascinano con quel cupo strato nero che li ricopre. Loro erano lì prima di me. Hanno visto molte cose ben prima che io esistessi. Rivedere Genova ieri è stato nostalgico. Ho pensato a mia madre. Alle gitarelle in via XX Settembre che ogni tanto faccio con lei, lei che mi ha conosciuto per tutti questi anni, e che in fondo è rimasta, e mi vuole bene più di quanto me ne abbiano voluto tutti gli altri. Mi è sembrato di tradirla, ad essere lì con un’ altra persona, indossando un’altra maschera, con un altro ruolo. Così, di colpo vivere Genova nel presente. Poi ho pensato che i tempi passano, che anche mia madre un giorno non ci sarà più, e se non mi impegno a stringere rapporti adesso, un giorno rimarrò completamente sola.

Conoscere la vita attuale della mia amica, che ha trovato casa, che ha un lavoro stabile, i suoi hobby, i suoi acquisti, mi ha riempito di gioia e di vitalità. Lei, che fino a qualche anno fa sguazzava nello studio matto e nell’incertezza, come tutti noi universitari, adesso ha una vita (quasi) completamente sua. Autonoma. Indipendente. Finalmente, veramente adulta. Ce l’ha fatta. E’ arrivata lì, al primo punto di arrivo. Una vita propria. Per fortuna, tra le tante sfighe che mi perseguitano, ho la fortuna di trarre autentico entusiasmo dai traguardie dalla soddisfazione altrui. E in secondo luogo (perchè non è la stessa cosa) mi riempie di speranza sapere che un giorno sarà possibile anche per me avere una casa, avere un lavoro di cui essere soddisfatti (perchè, a quanto pare, quel lavoro le piace davvero), una vita mia. Certo sperando, sperando con tutta me stessa di aver capito come intessere contatti sociali e trovare qualcuno (non importa se amore, amici o entrambi – poichè non faccio molta differenza, ed è questo spesso il problema) che sia capace di accogliere e ricambiare la mia sovrabbondanza di sentimenti.

Dall’altra parte, in tutta quella serenità e soddisfazione, mi è presa una specie di claustrofobia. Di “tutto qui?”. Ho sentito di non desiderare davvero davvero quella vita, quei traguardi, quella stabilità. Una specie di mostriciattolo pieno di vita si è agitato e ha battuto i pugni dentro al mio stomaco. Ho pensato a tutto il resto del mondo, a tutte le persone sulla faccia della terra, a tutti i panorami esistenti da qui al polo sud, a tutte le altre vite, a tutti gli odori diversi che può avere l’aria. E ho sentito chiaramente dentro di me che il mio desiderio non è quello di fermarsi, di stabilirsi, di realizzarsi. No. Io voglio conoscere tutto. Io voglio vivere tutto. Voglio andare dovunque, e da nessuna parte. E forse non sarò mai grande. Ho una voracità dentro che forse mi impedisce la serenità, ma in cambio mi regala un entusiasmo e una curiosità perpetua che sono la mia gioia, il mio rifugio. Il mio porto sicuro è l’orizzonte.

Speriamo solo che i soldi mi sostengano.

E’ una stranezza che due persone così diverse come io e lei abbiamo intessuto un’amicizia più o meno stabile, una stranezza di cui sono molto felice. In fondo mi ha sempre incuriosito chi è diverso da me.

Nella mia testa:

Parliamo (in modo orribile) di sesso

(Questo articolo ha buttato ogni pudore nel cesso, mi è costato veramente tantissimo scriverlo. Siete avvisati).

Scherzo spesso sul sesso, ma non ne parlo quasi mai. Un po’ perchè, anche volendo, non ne potrei parlarne con nessuno. Un po’ perchè, in fondo, tutta l’ironia che ci faccio, e tutta la disinvoltura che ostento, servono in realtà a coprire un forte disagio, chiamiamolo pure trauma continuo, che ho avuto in infanzia.

Leggi il seguito di questo post »

Se fa male, è la verità

Ti ho detto due formule magiche. “Non ti ho mai stimata.” “Non mi sono mai fidata di te.” Da quando te le ho dette, mi trascino per i passi della mia vita come l’ultimo degli abietti. Leggi il seguito di questo post »

“Me stessa” mi allontana dagli altri

Amici? Certo che ce li ho, direbbe il resto del mondo. Non lo so, forse non ne ho nemmeno uno, dico io a voce bassa, per non farmi sentire. Altrimenti sarei una stronza, sarei troppo esigente, sarei piena di problemi inutili. Di questo tipo sono i commenti che ho ricevuto finora.

Con i miei cosiddetti amici non ho problemi, non litighiamo mai. Ed è questo il problema. Siamo persone che non si toccano, messe l’una accanto all’altro come i soprammobili su una credenza, passiamo i mesi assieme parlando di cazzate, e lo chiamiamo attaccamento, amicizia, affetto. Forse per tutti, in fondo, l’amicizia è questa – e sono io ad avere “problemi inutili” – ma ditemi, avete mai visto un problema davvero inutile – o magari aveva solo il nome sbagliato? A volte sono loro profondamente grata e li penso con affetto sincero, perchè sono gli unici amici che ho – sì, come se nessun altro potesse, volesse essere mio amico. Come se la loro compagnia fosse un atto di carità nei confronti di me, una persona così distante, ancora più distante di quanto loro possano esserlo l’un l’altro, una persona che mente in continuazione – loro lo sanno, ma per qualche motivo scelgono di rimanere.  Ed io sono loro così grata, perchè se incontrassi un giorno me stessa, mi sentirei semplicemente odiata da quell’individuo così bugiardo, con discrezione, ma odiata, e me ne andrei via. Suppongo che i miei amici traggano il piacere che possono dalla mia parlantina, e dal buon carattere che fingo di avere, e non vogliano chiedere di più.

Altre volte invece li odio, e li disprezzo. Dovete sapere che io ho il disprezzo facile, per gli altri così come per me stessa ed il mondo intero. Li trovo una mandria di individui ottusi ed amorali, senza prospettive, grezzi, sommersi dalla banalità – e l’odio che provo per loro spesso si confonde con l’odio per le cose del mondo. Vorrei non essere più invitata alle loro feste o alle loro serate, vorrei che non mi riempissero più la testa delle loro cazzate – a cui tanto non potrei oppormi, perchè non ascoltano confutazione alcuna. Ogni volta che decido di mangiare sano, di vedere film diversi da quelli di hollywood, di andare a letto presto, di fare attività fisica, tutte le passioni che ho da tempo e devo strozzare, o tutte le buone abitudini che sto cercando di apprendere, mi allontanano sempre di più da loro.

Tra l’odio e l’amore c’è una verità più o meno oggettiva: ho veramente poco in comune con queste persone, sia di cuore, sia di esperienze, sia di prospettive, viviamo su pianeti diversi. Ma l’alternativa qual’è? La solitudine. Non conosco nessuno che sia diverso da loro – e quel che è peggio, sto perdendo quasi del tutto la mia già scarsa capacità di intessere relazioni umane; non parliamo della capacità di goderne davvero – è praticamente estinta. Provo, ogni tanto, per qualche caso fortuito, a conoscere e frequentare altre persone, e tutto andrebbe a gonfie vele…se solo non sentissi, ad un certo punto, l’impulso irrefrenabile di fuggire via e non tornare. Sto recitando, lo so che sto recitando. E allora distruggo tutto, spezzo i legami, mi ritiro nella mia sincera, limpida solitudine. Forse vuol dire questo, non credere più nell’amore. Sentire che fuori dalla solitudine c’è solo altra solitudine.

Non sono abituata ad essere una persona vera agli occhi degli altri. Ho imparato con gli anni che le persone mi avvicinano solo perchè vogliono qualcosa. Che io le faccia sentire importanti. Oppure vogliono scopare, che è quasi la stessa cosa. Non so più dov’è finita la mia anima, e ho paura.

Padre?

Oggi, mentre passeggiavo in un negozio, ho visto un bel segnalibro intarsiato, e ho pensato “perché no, potrei regalarlo a mio padre, dato che gli sto regalando anche un libro…” In quel momento, all’istante, mi sono sentita davvero patetica.

Ho smesso di parlare a mio padre tre mesi fa, dopo uno dei più grandi litigi della mia famiglia. Mi ha detto tante cose che un padre non dovrebbe dire mai. Ricordo di avergli dato uno schiaffo, per evitare che lui ne desse uno a mia madre. In quel momento ho capito che le circostanze mi avevano costretto a comportamenti in cui non mi riconosco, non voglio riconoscermi – e benché sia ovvio, sono stata io, ne sono capace – è anche vero che lontano da mio padre sono una persona ben diversa, e la rabbia e il disprezzo e il dolore non mi consumano. Da certe persone è meglio stare lontane, e non concedere loro l’occasione di giudicarci, di influenzarci e no, nemmeno di chiederci affetto. Per sopravvivere, si diventa bestie.

Dopo l’adolescenza pensavo che avrei recuperato il rapporto con mio padre, se solo l’avessi accontentato, se solo l’avessi compreso, se solo avessi chiuso gli occhi sui suoi difetti… insomma, tutto io dovevo fare. Educativo. Così mi aveva insegnato mia madre, l’unico metodo che negli anni si era inventata per sopportarlo. Ed io ci ho creduto. Gli ho dato ragione per anni, su tutto quello che faceva, diceva e pensava, e sono stata ben attenta a non introdurre nessuna nuova opinione, sì certo, per sopportarlo anche io… ma tentavo anche di farmi volere bene, nell’unico modo che mi veniva in mente: renderlo docile, adularlo. E lui era contentissimo, perché non ha mai desiderato di più dagli altri. Applausi. Lui era il bambino egocentrico e insicuro, affamato di conferme, ma tirannico come un adulto, e io la sorella-mamma, obbligata a vezzeggiare il bebè e non chiedergli niente in cambio.

Quando è arrivato a dirmi cosa fare o non fare, sono scoppiata. Io non amavo lui, amavo un’ altro padre, con la sua faccia, che credevo esistesse, e lui non amava me, semplicemente mi credeva un’estensione della sua coscienza. E dov’è stata mia madre in tutto questo? Perché ha lasciato fare a me lo sforzo emotivo di un ripudio che avrebbe dovuto sobbarcarsi lei, lei che quest’uomo incompiuto se l’è scelto, e che ha cominciato a detestare per i medesimi motivi venti, trent’anni fa? Per ora preferisco tenermi dentro il desiderio di essere amata, e combattere tra il disprezzo e la pietà. Un giorno compatirò mio padre, quando sarà morto e non potrà più ferirmi – ma adesso non mi si può chiedere questo. Sulle mie sole spalle pesa la dichiarazione aperta del nostro fallimento come famiglia, che né mio padre né mia madre mi aiutano a portare, ad elaborare. Troppo impegnati a ignorare, a detestarsi per ogni piccolezza, a lasciar perdere.

Oggi ho pensato a lui, d’istinto. Un secondo regalo era superfluo, il souvenir gliel’avevo già comprato, tanto per non fargli pesare la aridità tra noi. Questo è l’unico riguardo che mi sento di avere per la sua “sensibilità” al momento. Certo, soffre. Ma niente e nessuno può renderlo felice. E’ un uomo chiuso al mondo e, mi sa, cieco a sé stesso, l’unico interlocutore con cui dovrebbe parlare. Se anche avessi continuato ad applaudire, lui avrebbe continuato a chiedermi applausi, perché dentro di sé avrebbe sempre avuto rabbia e paura. Il suo destino di infelicità non mi riguarda, non posso farci niente -solo adesso lo capisco. Posso solo fare qualcosa per me.

Eppure, oggi ho pensato a lui. Mi sono sentita di una debolezza pietosa, mentre portavo il segnalibro alla cassa. Sono proprio un’illusa. Quell’uomo non mi amerà mai.

La gara alla vita

Mi chiedo cosa dovrei fare del tempo che mi rimane qui. Non voglio scendere nei dettagli, diciamo che mi trovo dall’altra parte del mondo. E ci resterò ancora per poco.

E’ come se il mio cuore dovesse pian piano adattarsi all’idea della partenza, e stesse andando in letargo. Ho quasi smesso di visitare posti nuovi – più che altro rimango a casa, a fare quel poco di lavoro che avrei dovuto fare prima, invece di scorrazzare da una parte all’altra come i turisti – e visito di nuovo i miei luoghi preferiti, come a volerli salutare un’ultima volta, imprimerli nella mia mente, chiudere i conti con loro.

Mi arrabbio un po’ a vedere tutte le foto su Facebook che continua a pubblicare chi è partito assieme a me. Su Facebook si svolge quotidianamente una gara di vita: chi fa più cose, vede più posti, va a più feste, ottiene più lavori, si diverte di più – e le foto, dietro la loro apparenza innocua e scanzonata, sono in realtà una spavalda prova da portare davanti alla giuria degli utenti: “io ho la vita migliore!”

Tutto ciarpame, ovviamente. Questo mondo ci impone di sembrare assolutamente felici – mica di esserlo. “Happiness is the new black” e soprattutto, mi raccomando, che sia lo stesso tipo di felicità per tutti! Dobbiamo avere tutti le stesse esigenze, tutti gli stessi tempi – pena, esclusione dal magnifico circo dei vincenti (vincenti di cosa? Mah, nessuno se lo chiede).

Dovrei sentirmi davvero gelosa di chi, quasi alla fine del viaggio, sprizza energia e intraprendenza come i primi giorni? No, probabilmente no. Un po’ faccio quello che preferisco, un po’ faccio quello che posso.
Sono una persona dai tempi lentissimi, spesso ho bisogno di una tregua per assorbire  le esperienze che mi colpiscono più profondamente (e qui, di esperienze profonde, ne ho avute tantissime). Semplicemente, sono piena fino all’orlo di novità, e adesso mi sto preparando alla partenza – se non mi riservassi queste attenzioni, la mia testa diventerebbe una pattumiera disordinata, e probabilmente non saprei cosa ricavare da questo viaggio.
In secondo luogo è vero, forse non ho la spigliatezza naturale che molti miei “amici” hanno – ma è anche vero che, dalla mia posizione di partenza, qui di progressi ne ho fatti tantissimi. Mentre gli altri cercavano di ambientarsi e si chiedevano perché qui non c’è la pizza come a casa loro, io mi sono girata la metropoli da sola, ho visto di tutto e me la sono cavata con una lingua di cui so poco e niente, superando le differenze culturali, la mia terribile timidezza e il disagio causatomi dalla mia mezza sordità. Magari non avrò raggiunto la stessa intraprendenza di un gruppo da 15 di italiani che si muove compatto, ma sono me stessa, non qualcun altro, e per essere me stessa ho fatto davvero un salto di qualità.

In sostanza, dovrei solo essere più buona con me stessa, ed evitare di paragonarmi sempre agli altri.

Introversa

Sono sempre stata una persona incredibilmente introversa. Che non vuol dire timida, né insicura, né con problemi. O meglio, se col passare degli anni ho accumulato timidezza, insicurezze e problemi di vario genere, deriva anche dalle continue pressioni che ho ricevuto in ogni ambiente, affinché mi adeguassi all’estroversione del resto del mondo.

Ovviamente il resto del mondo non è abitato solo da estroversi, ma esiste questa legge non scritta per cui sia l’unico modo sano di rapportarsi al mondo. Ogni volta che paleso a qualcuno i miei problemi col prossimo, la risposta che ricevo è più o meno sempre la stessa. “Dovresti fare un po’ più come fanno gli altri”. E io ci ho creduto, eccome se ci ho creduto. Ho passato anni interi a cercare di adeguarmi agli altri, a giudicare illegittime le mie necessità più viscerali, frutto di una personalità immatura e ancora da sgrezzare. Insomma mi era stato insegnato che crescere voleva dire spegnersi e tradirsi. Ma sono cresciuta con un padre vecchio ed egocentrico a livelli patologici, e con una madre molto più giovane che ha preferito spegnersi dietro alle sue esigenze, piuttosto che riconoscere di aver scelto l’uomo sbagliato, la vita sbagliata. Quindi, forse, nel mezzo della mia immaturità, non potevo interpretare altrimenti i messaggi grezzi che il mondo mi mandava.

Solamente adesso sto cominciando, molto lentamente, ad erodere questa maschera di ferro che mi sono costruita, ed è molto difficile a volte distinguere la paura di reclamare il proprio spazio da un legittimo e civile riguardo nei confronti della sensibilità altrui. La realtà è sempre ambigua, e spesso, quando non siamo sicuri di chi siamo, i nostri sentimenti ci conducono per strade sbagliate. Ho raccontato bugie a me stessa per un sacco di tempo, e adesso non so più distinguere quali siano i riflessi condizionati da queste bugie, e quali siano invece reali necessità.

Adeguarmi agli altri mi ha impedito di capire chi ero, e poiché non sono la stessa di ieri né la stessa di due anni fa, sono andata avanti per anni e anni senza sapere chi fossi – adesso devo scoprire chi sono diventata, in tutti questi anni in cui non c’ero, ricominciare dalle presentazioni, promettere che mi prenderò cura di me questa volta, come un genitore che torna a casa dopo 10 anni e trova cresciuto il figlio che aveva abbandonato bambino. Cresciuto come? Che problemi ha accumulato, che pregi si è conquistato, come fare in modo che non soffra più così tanto in futuro?

Se mi fossi ascoltata di più avrei scoperto, per esempio, che non sono solo introversa. Ma che sono anche esigente –  riesco a chiamare amico solo chi mi mostra la stessa sincerità, lo stesso coraggio e la stessa profondità di affetto che sono capace di dare io (e che non riesco a dare con il contagocce). Che sono quindi immoderata nei miei sentimenti (e reprimersi non equivale ad aver appreso il buon senso). E infine, che non riesco a stringere amicizie “per prossimità”: ritrovarsi a fare le stesse cose (scuola, lavoro, sport) nello stesso luogo e tempo, conoscersi, e decidere quindi di condividere anche un certo numero di attività al di fuori del compito assegnato.

Non sono mai riuscita ad affezionarmi davvero alle persone che mi sono piovute in testa a scuola, in palestra, all’università. In genere mi sono affezionata solo a chi mostrava una serie di interessi o un modo di vivere che suscitasse la mia stima – per tutti gli altri non sono mai riuscita a provare più di una generica simpatia. E mi ha fatto sempre molto male sapere che per il mio gruppo io ero un’amica, mentre gli altri per me erano un’incognita. Ci si sente traditori, aridi. Ho cominciato a sentirmi meglio con me stessa quando ho capito che la loro cosiddetta “amicizia” a livello pratico mi fornisce lo stesso supporto e la stessa comprensione che la mia “simpatia generalizzata” fornisce loro, se non di meno (a volte non ne sono capaci).

Non ho voglia di giudicarmi adesso. L’ho fatto fin troppo in questi anni. Ho sempre creduto che se non fossi stata perfetta nessuno mi avrebbe mai voluto bene – ma non sono mai stata perfetta. Non credo nei pregi e nei difetti, ma in una massa di tratti neutri che diventano positivi o negativi a seconda delle circostanze. Adesso ho solo voglia di amarmi per come sono, per come riesco a capirmi: un garbuglio di problemi e di sogni.